Non c’è chitarrista che non si ponga prima o poi, a volte in maniera maniacale, il problema del “suono”.
Questa, di per sé, oltre ad essere una tappa fondamentale della maturazione di qualunque musicista, è una preoccupazione sana e naturale. Dato che l’offerta del mercato degli strumenti musicali è in larghissima parte industriale e standardizzata e chiunque di noi ha la possibilità di accedere a strumentazione e procedure di trattamento del suono similari, la necessità di personalizzare tutto per crearsi una personalità ed uno stile propri diviene dunque una questione fondamentale.
Certo è che l’insieme strumento-elaborazione-amplificazione-ripresa sonora offre di per sé un’enorme quantità di variazioni possibili nel sound. In un modo o nell’altro la maggior parte di noi si pone come obiettivo il raggiungimento di un “sonotipo” estrapolato in larga parte da questo o quel chitarrista in questo o quell’album, di questo o quel periodo storico.
Molto spesso, allora, ci si accappona nella ricerca del setup che meglio rappresenti (o addirittura replichi nei minimi dettagli) quello del chitarrista di riferimento: a volte assai semplice ed alla portata di tutte (o quasi) le tasche, altre volte estremamente complesso, talvolta pressoché irraggiungibile, se non con gravosi investimenti.
Il sistema “mano-plettro”
Dopo aver cercato in lungo ed in largo il setup ideale per raggiungere il suono più ambito, quando meno ce lo si aspetta capita quasi immancabilmente di trovare qualcuno che, utilizzando una strumentazione completamente diversa, ottiene risultati mirabolanti, migliori dei frutti dei nostri studi ed investimenti di anni!
Da un lato questa cosa fa molta rabbia (e vorrei vedere…), dall’altro porta assai spesso a concludere che la strumentazione in nostro possesso per qualche motivo non sia quella giusta o non sia poi granché e ci fa mettere nuovamente in cerca.

Non è raro, così, imbattersi in personaggi che si impossessano febbrilmente di tutto e di più, riunendo quanto di più sofisticato e costoso il mercato possa offrire in ogni settore, senza raggiungere il risultato.
La più blasonata strumentazione in circolazione, infatti, non riesce ad evitare che molti di loro ottengano (con buona pace del conto in banca) poco più dello stesso suono che avrebbero con il più economico dei setup!
Solo in pochi illuminati casi ci si chiede se il suono insoddisfacente non possa derivare da qualcosa che sta a monte della strumentazione o degli strumenti stessi e che il difetto possa risiedere non tanto nelle apparecchiature utilizzate, quanto nella produzione del suono all’origine: in quello che fanno le nostre mani e nel modo nel quale agiscono.
Questo articolo vuole porre l’attenzione proprio su questo aspetto erroneamente ritenuto da taluni secondario, analizzando quel “dispositivo” che sta tra il nostro cervello e la chitarra e che potremmo chiamare il “sistema mano-plettro”!
Il concetto di “tocco”
Sul fatto che lo stile di ogni musicista sia determinato dal suo modo di suonare, di costruire le frasi, di scegliere le note, di accompagnare, eccetera, c’è ben poco da discutere.
Nonostante ciò l’attenzione non sempre si sofferma quanto dovrebbe sull’elemento che prima di ogni altro condiziona il suono: il modo di produrre le note.
Su uno strumento come la chitarra, le caratteristiche della vibrazione della corda sono sostanzialmente tutto.
La chitarra acustica utilizza la propria tavola armonica e la cassa per amplificarle direttamente, la chitarra elettrica se ne serve come elemento perturbatore del campo magnetico dei pickups, per generare il segnale ai capi delle bobine, amplificandolo successivamente.
In ambedue i casi, le caratteristiche fisiche della vibrazione sono l’elemento chiave per determinare il suono che potremo udire alla fine.

Il “tocco” è sostanzialmente determinato dall’insieme delle azioni che la mano destra di un chitarrista predilige, conosce e mette in atto, per far vibrare la corda ogni volta che intende generare una nota e dai sistemi che utilizza per farlo.
La mano destra è coadiuvata certamente anche dalla sinistra, con tecniche che vanno dal glissato, all’acciaccatura, dal bending al vibrato e così via, ma esse definiscono maggiormente lo “stile esecutivo” piuttosto che il timbro ottenibile.
L’insieme delle tecniche espressive, concorre a dare ad ogni nota un carattere ben preciso, una propria personalità. L’espressività di una nota è determinata da molti fattori, che sono ad esempio l’accentuazione dinamica (il piano ed il forte, per capirci), così come la scansione ritmica (timing), parametro importantissimo sul quale fin troppo spesso si pone insufficiente attenzione!
Questo grande insieme di piccole grandi scelte, estemporanee o premeditate che esse siano, costituisce l’ambito della cosiddetta “pronuncia delle note” ed è terreno di studio e di crescita personale senza fine per ogni musicista. Alcune di queste riguardano e definiscono propriamente il “tocco” e sono quelle che maggiormente svolgono un ruolo attivo nella definizione del timbro.
Il suono delle mani

La chitarra, nelle sue tante incarnazioni, viene suonata in molti modi differenti: con unghie naturali ed artificiali, con i polpastrelli delle dita, con il plettro…
Ogni tipo di strumento ed ogni genere musicale sono caratterizzati da stili e timbri differenti, ognuno dei quali è anche legato ad uno o più stili esecutivi della mano destra.
Difficile pensare ad un brano di flamenco suonato senza unghie o ad un riff heavy metal eseguito con i polpastrelli! Ci sono però anche generi, come il blues o il jazz, nei quali troviamo la compresenza di tecniche diverse, da quella delle unghie tipica della chitarra classica, a quella dei polpastrelli, fino ad arrivare al misto plettro-dita ed al solo plettro.
Il mezzo meccanico che media tra le idee e la loro effettiva realizzazione può dunque rendersi responsabile di una quantità notevole di risultati sonori differenti: ecco perché mi piace definirlo un vero e proprio “effetto”, del quale ogni chitarrista dispone e che, in maniera più o meno consapevole, adopera per modificare il timbro dello strumento e caratterizzare il proprio.
Corde che vibrano…
Vediamo innanzitutto quali sono le caratteristiche principali di una nota prodotta dalla chitarra. Analizzando la vibrazione di una corda possiamo individuare varie categorie di parametri significativi: attacco, frequenza fondamentale, distribuzione delle armoniche ed inviluppo.
L’attacco contiene le caratteristiche della fase iniziale nella quale la nota comincia ad essere prodotta, quando cioè la corda, dapprima in quiete, viene fatta vibrare.
La frequenza fondamentale della vibrazione è data dalla lunghezza della corda, ed è il parametro che noi essenzialmente variamo premendo la corda all’altezza di diversi tasti sul manico.
L’inviluppo è il decadimento della vibrazione nel tempo, fino al ritorno allo stato di quiete iniziale della corda.
La distribuzione delle armoniche è il risultato dell’interazione di tutti i fattori fin qui considerati. Le armoniche sono le componenti secondarie della vibrazione principale della corda. La vibrazione alla frequenza alla quale la corda vibra principalmente (detta “fondamentale”) è infatti arricchita da tutta una serie di componenti secondarie, vibrazioni a frequenze che sono multipli esatti di essa. Esse sono dette “armoniche” ed il loro numero, la loro ampiezza e la loro distribuzione caratterizzano e definiscono essenzialmente ciò che chiamiamo “timbro”.
Dei parametri elencati appare chiaro come l’attacco e la distribuzione delle armoniche, siano quelli più largamente influenzati dal modo nel quale la nota sulla chitarra viene prodotta e saranno dunque i principali oggetti della nostra indagine per vedere di mettere a fuoco la relazione tra forme, materiali e suoni ottenibili.
E’ impossibile porre un suono di riferimento come assoluto: “il suono della chitarra” in quanto tale non esiste, ne esistono semmai le infinite varianti, ognuna delle quali è determinata, oltre che dalle diverse tipologie di chitarre, dalle ulteriori differenze timbriche esistenti tra un modello e l’altro.
èCercherò quindi di mettere a confronto sullo stesso strumento le varie tecniche di produzione del suono senza riguardo per il genere musicale o per la maggiore o minore comodità di questo o quel metodo o artificio.
Per i nostri paragoni ho optato per una chitarra classica Yamaha Silent con corde in nylon per le prove con le dita e per il suono pulito del pickup al manico di una Fender Stratocaster American Standard del 1997 per le prove con i plettri: qualunque altro strumento, acustico o elettrico che sia, potrebbe fare al caso e sarebbe sottoposto alle stesse variazioni timbriche.
Le dita
Le dita della mano destra sono senza dubbio il più intuitivo dei “mezzi meccanici” per produrre una nota sulla chitarra eppure, nonostante esse rappresentino una scelta pressoché obbligata nel campo della chitarra classica o flamenco ed una soluzione frequente nel caso dei chitarristi acustici, sono di fatto una scelta minoritaria per gran parte dei chitarristi elettrici, che utilizzano a maggioranza il plettro nelle sue mille forme.
Certamente il controllo dinamico messo a disposizione dall’utilizzo diretto di unghie e polpastrelli difficilmente può rivaleggiare con quello dell’ulteriore intermediario rappresentato da unghie artificiali e plettri, ma il tipo di attacco ottenibile con i diversi metodi risulta più o meno efficace nei diversi campi di utilizzo.
La chitarra classica si suona tradizionalmente con le unghie: esse fungono in sostanza da “plettri naturali”, individuali per ogni dito. Che il profilo delle unghie sia essenziale per il suono ottenibile i chitarristi classici lo sano molto bene e dedicano a questo aspetto molta attenzione, curandone particolarmente il taglio e la conseguente limatura.
L’unghia produce un attacco della nota che sostanzialmente è costituito da una prima porzione di rumore, dovuto allo sfregamento, che precede la messa in moto della corda che segue immediatamente.

La lunghezza dell’unghia e la sua forma influenzano proprio quella porzione di rumore, dando luogo a suoni diversi (unghia.mp3). Le modifiche riguardano principalmente l’equilibrio delle armoniche alte, legato anche a qualità, tipologia e stato di usura delle corde stesse, rispetto alla presenza della nota fondamentale: esse sono generalmente in buona evidenza, ma la loro ampiezza può variare notevolmente in funzione di un profilo più o meno dolce dell’unghia e del modo nel quale essa mette in moto la corda, cioè a seconda della “decisione” del tocco. La posizione della mano rispetto al ponticello, fa ovviamente il resto. Chitarristi di estrazione jazzistica, come Joe Pass, hanno utilizzato largamente e con successo questa tecnica, modificando l’impatto dell’unghia con la corda per ottenere un attacco meno diretto e quindi un suono meno squillante.
In generale possiamo dire che il polpastrello è un mezzo molto meno rigido rispetto all’unghia e questo fatto tende ad ammorbidire molto l’attacco della nota, rendendolo meno pronto ed immediato, nonché a smorzare la gran parte delle armoniche alte che prima erano in evidenza.
Con un suono tanto soft potrebbe risultare meno facile rendere “frizzante” l’esecuzione, specialmente dal punto di vista ritmico, così come uscire in primo piano all’interno di un ensemble: eppure come al solito le apparenti certezze in questo campo non sono mai tali, dato che un grandissimo della chitarra jazz come Wes Montgomery, fece di questa caratteristica il suo marchio di fabbrica già negli anni ‘50, suonando qualunque cosa, note singole ed accordi, con una ritmica straordinaria, pur utilizzando il solo pollice della mano destra (tecnica affinata, si dice, a seguito di lamentele dei vicini di casa per il volume troppo alto…)!

Ad ogni modo, così facendo, egli caratterizzò le sue esecuzioni con uno dei suoni più soft e particolari ottenibili a mani nude.
Un diverso uso dei polpastrelli caratterizza il modo di suonare di alcuni chitarristi elettrici di estrazione rock-blues (Mark Knopfler, Jeff Beck, Robben Ford, ecc.). Queste tecniche (di solito molto personali, come nel caso di Mark Knopfler), permettono di recuperare un eccellente senso ritmico “strappando” le note, dando loro particolari accenti “secchi” e sincopati. La mano destra di ogni artista ha un proprio peculiare bagaglio “gestuale”, ma la sostanza non cambia: lo strappo della nota sfrutta il frustare della corda sul tasto per acquisire un attacco prontissimo, pur meno ricco di armoniche alte di quello dell’unghia. Al contrario, anzi, la nota così ottenuta acquista “pancia”, mettendo in evidenza le armoniche medio-basse anche sui cantini, caratterizzandosi con un attacco molto scoppiettante e rendendo le note più corpose.
Il plettro

Il plettro è un’invenzione relativamente recente… e guardacaso proprio italiana!
Pare risalga al 1922, quando il napoletano Luigi D’Andrea, che sbarcava il lunario negli States vendendo aspirapolveri porta a porta, venne per caso in possesso di frammenti di materiale plastico tartarugato, sagomati a scopo decorativo a forma di cuore. Su suggerimento del proprio figlioletto, che vide una somiglianza tra essi ed i plettri utilizzati per il mandolino, pensò di venderli ad un negozio di strumenti musicali di New York. L’articolo ebbe un tale successo che in breve egli fu in grado di mettere in piedi una fabbrica, ancora oggi una delle maggiori produzioni americane di plettri.
Il plettro è disponibile oggi in una grande quantità di materiali, forme e spessori. Si va da materiali plastici come la celluloide, il nylon, il tortex, il delrin, il lexan o i policarbonati, alle pietre dure, ai metalli, ai materiali di origine animale e vegetale, come l’osso, il corno, il legno o impasti ottenuti dalla macinazione di gusci di vario tipo.
La forma è variabile, anche se quasi sempre riconducibile ad un triangolo più o meno elaborato, accentuato, arrotondato, a volte ispessito o modificato in varianti ergonomiche che favoriscono la presa o impediscono lo scivolamento tra le dita.
Non ci addentreremo qui nelle caratteristiche che rendono i plettri più o meno comodi, adatti alla velocità o più funzionali, in quanto la nostra indagine è incentrata sulla loro capacità di modificare il timbro.
Ogni materiale, dunque, dà luogo a suoni differenti: le punte più o meno arrotondate, i diversi spessori e la forma del profilo esterno influenzano notevolmente il timbro e l’attacco della nota, rivelandosi di importanza cruciale.
Ognuno di questi parametri influisce in maniera determinante sulla distribuzione delle ampiezze delle varie armoniche, per cui la sperimentazione è d’obbligo e mano a mano che si prende il controllo della situazione le sorprese, di norma, non mancano.
Chitarre che ci lasciano insoddisfatti in certi generi musicali o che non riteniamo all’altezza come timbrica, potrebbero prendere vita magicamente grazie ad un nuovo plettro o ad un modo diverso di utilizzare quello che già abbiamo, per cui attenzione ed orecchie ben aperte!

In generale, possiamo dire che tutti i plettri, usati in modo perfettamente parallelo alle corde, danno luogo ad un suono più secco e ad un attacco più brillante, mentre se viene variata la loro inclinazione di 10-15 gradi o più rispetto alle corde, producono un suono più morbido, caldo e dotato di maggiore spessore sulle frequenze medio-basse.
Queste caratteristiche di partenza, valide in ogni caso, vanno naturalmente a sommarsi ed a combinarsi con quelle esaltate o inibite di volta in volta da tutti gli altri parametri descritti.
I plettri sono catalogati per categorie riguardo al loro spessore.
I plettri di spessore molto sottile (Thin, da 0.38 a 0.65mm) risultando cedevoli creano un suono brillante con attacco non troppo marcato, ottimo per le ritmiche.
I plettri di spessore medio (Medium, da 0.65 a 0.73mm) danno maggiore corpo e si collocano come tuttofare.
Aumentando lo spessore (Medium/Heavy, da 0.73 a 0.88mm), l’attacco si fa più marcato e il timbro più ricco di armoniche medie e basse.
Plettri ancora più spessi (Heavy, da 0.88 a 1.0mm) si rendono ancora abbastanza comodi per l’accompagnamento e ottimi per i soli, con buoni armonici sull’attacco.
I plettri di spessore maggiore (Extra Heavy, da 1.0 a 3.0mm) sono infine poco indicati per l’accompagnamento, mentre hanno una resa eccellente sui soli. Sono molto ricchi di medi e bassi, possono avere un grande attacco se il profilo è appuntito e a seconda del materiale, armonici molto presenti.
A parità di altre caratteristiche, i materiali plastici danno risposte timbriche abbastanza differenziate: più brillanti delrin, policarbonati e lexan, mentre tendenzialmente più caldi tortex, nylon, e celluloide.
Il metallo conferisce di norma un attacco estremamente pronunciato ed in evidenza, con armonici molto ricchi e suono brillante: chitarristi di fama (ad es. Brian May) utilizzano notoriamente delle monete.
I materiali di origine organica sono tendenzialmente più caldi e morbidi. Anche qui si nota una grande variabilità di risposte, a seconda che la morbidezza di suono si accompagni ad armonici più o meno presenti e ricchi, nonché ad un attacco più o meno pronto.
E’ facile capire, dunque, quale sia l’importanza strategica della scelta del plettro e del modo nel quale si intende utilizzarlo in funzione del suono e del tocco che si vogliono ottenere.
APPENDICE: Grafici e samples audio
I grafici mostrano la curva di risposta in frequenza di una nota LA della quinta corda a vuoto, ottenuta utilizzando diversi sistemi di produzione della nota.
La prima curva di ogni set si riferisce alla classica plettrata con il plettro parallelo alle corde, la seconda utilizza una pennata angolata rispetto alle corde, mentre la terza impiega la parte più stondata del plettro.
Sono stati messi a confronto plettri di progetto differente e di diverso materiale di fabbricazione: di origine vegetale, di materiali plastici (usando spessori e profili differenti), nonché le due possibilità naturali e non meccaniche di produzione della nota: unghia e polpastrello.
Ogni grafico mostra in ascissa (asse orizzontale) le frequenze espresse in hertz (Hz), in ordinata (asse verticale) le ampiezze espresse in decibel (dB).
A circa 220 Hz troviamo la frequenza fondamentale del LA della quinta corda a vuoto, mentre i picchi successivi, disposti ad intervalli regolari, rappresentano le armoniche, poste su frequenze doppie, triple, quadruple, ecc., rispetto ad essa.
Si nota come il numero e l’ampiezza delle armoniche siano molto variabili, in funzione del materiale usato e del modo di utilizzare il plettro. Polpastrello e plettri a profilo arrotondato utilizzati inclinati rispetto alle corde privilegiano la fondamentale e mettono meno in evidenza le armoniche alte, rendendo l’attacco della nota più morbido ed il suono più caldo. Unghia, plettri a profilo più secco utilizzati parallelamente alle corde danno invece attacchi della nota più secchi, diretti e ricchi di armoniche alte.
Pickup, condensatori, interruttori push-pull, buffers, cavi, pedaliere, stomp boxes, valvole, transistors, microfoni e quant’altro: la catena di generazione ed elaborazione del suono delle nostre chitarre a volte è davvero lunga, complessa e spesso elaborata.
Il tempo e lo sforzo economico che dedichiamo alla sua composizione e messa a punto sono davvero notevoli.
Eppure a volte non teniamo conto di quante potenziali capacità di modifica del suono siano contenute in un dispositivo che ogni chitarrista può avere a disposizione senza bisogno di avventurarsi in spese folli e che è in grado di condizionare tutto quanto viene prima e dopo di esso: i suoi “function modes”, ognuno dei quali dotato di parecchi settings e presets differenti, permettono di variare a piacimento il contenuto in frequenza del suono, variando l’attacco della nota, la dinamica ed il suo contenuto di armoniche e creando così le sonorità più adatte e convincenti per qualunque genere musicale.
Venite a scoprire di cosa stiamo parlando…
Il dispositivo in questione è quanto di più apparentemente banale potremmo pensare: si tratta del modo nel quale percuotiamo le corde, con i tanti tipi di plettri possibili o con le dita, nei tanti modi possibili che ne rappresentano appunto i “function modes”!
Sostanzialmente, abbiamo nella nostra mano destra la possibilità di variare a piacimento l’attacco della nota ed il contenuto in frequenze del suono del nostro strumento, utilizzando oculatamente e con cognizione di causa un opportuno sistema di “messa in moto” delle corde, affiancato a tutto quel che normalmente si identifica con il termine “tocco”.
I contributi audio a corredo di questo testo, esemplificano in modo abbastanza chiaro, spero, alcune delle possibili varianti.
Per identificarle meglio, ho provveduto ad eseguire la stessa frase musicale sullo stesso strumento, a parità di tutte le condizioni di registrazione.
Ho utilizzato una Gibson Le Paul Standard, settata sul pickup al ponte, registrata in diretta su PC da una vecchia (ma sempre in gamba) Johnson J-Station in emulazione Fender Twin con riverbero a molla.

I samples 01, 02 e 03 riguardano un plettro Fender Thin (0.60mm) in celluloide, utilizzato sia con la normale punta, parallelo o inclinato rispetto alle corde, che con la parte più tonda. Si nota come il materiale cedevole diminuisca la prontezza dell’attacco ed il “punch” della nota, per diventare poi molto più morbido utilizzando la parte più tonda.



I samples 04, 05 e 06 propongono le stesse tre tecniche esecutive con un plettro Fender Medium (0.88mm) in celluloide.
L’attacco è ora più deciso e si sentono i cosiddetti “overtones”, le armoniche medio-alte, in evidenza.
I samples 07, 08 e 09 utilizzano un plettro Fender XHeavy (1.14mm) in celluloide.



Diminuiscono gli overtones sull’attacco della nota, che si fa più diretto e corposo.

I samples 10, 11 e 12 vedono protagonista un plettro vegetale “made in Italy”, prodotto da Essetipicks. E’ realizzato in noce di Tagua, un frutto di origine sudamericana, con uno spessore di oltre 2.5 mm e sagomato in maniera simmetrica lungo tutto il profilo di plettrata per agevolare la velocità ed ammorbidire l’attacco. Si nota come le armoniche più alte vengano smorzate subito dopo l’attacco della nota, che però resta molto nitido, in tutte e tre le modalità di esecuzione.




Il sample 13 mostra la morbidissima pasta sonora di un plettro Liskova (proveniente da una non ben identificata produzione dell’est europeo) dalla rigidità estrema, costituito da materiale plastico liscio di ben 3mm di spessore e da un profilo decisamente arrotondato.
Il suono è molto “di pancia”, con attacco diretto, ma molto morbido e scuro.

Il sample 14 è ottenuto utilizzando un plettro in metallo da 1 mm di spessore della TECKPICK.
Le armoniche alte sono parzialmente smorzate solo nell’inviluppo della nota, restando ben presenti nell’attacco della nota.
Il sample 15 è basato sull’uso di una comune moneta da 2 euro.
Il metallo, unito al bordo a spigolo vivo della moneta ed al suo profilo perfettamente circolare, porta ad un attacco molto grosso, sporco, ricco di “punch” e di armoniche, che si rivela particolarmente spettacolare nell’esecuzione di parti in “palm muting”.
Concludono la rassegna i samples 16 e 17, che sono eseguiti utilizzando le dita: polpastrelli o unghie.


Risulta evidente come l’unghia lasci risaltare tutte le armoniche superiori, mentre il polpastrello le attenua in maniera drastica.
Per le particolari possibilità di eseguire note appoggiate o strappate, queste tecniche esecutive si rivelano molto efficaci nel conferire un eccellente attacco alle note, molto vario a seconda che si strappi o meno, caricandolo o scaricandolo di alte frequenze e di bassi, unito ad una forte carica espressiva e ad un ritmo ben accentuato, che caratterizzano le parti che si eseguono. Mentre i polpastrelli consentono timbriche più calde, con armoniche alte meno in evidenza, le unghie riportano a sonorità più vicine a quelle dei plettri in materiali plastici, con attacco della nota più brillante.