Il pickup che risponde al nome di P90 pare comparire dal nulla sulle chitarre Gibson nel 1946. In realtà nell’anno della sua commercializzazione il progetto poteva già contare su una storia che risaliva indietro fino agli anni ’30.

GLI INIZI
Il primo modello Gibson a beneficiare di una trasduzione elettromagnetica fu la ES150 usata da Charlie Christian. Questo chitarrista, ritenuto il primo vero chitarrista solista della storia della musica afroamericana, pur nella sua brevissima carriera stroncata dalla malattia nel 1942 aveva contribuito non poco alla popolarità della chitarra elettrica. Grazie a ciò il trasduttore che equipaggiava il suo strumento è passato alla storia con il suo stesso nome.

A causa dei deboli magneti in acciaio impiegati, il pickup Charlie Christian era ingombrante e per il montaggio necessitava di tre grossi fori da praticare sulla tavola armonica. Raggiungeva a stento i 2.5 kOhm di avvolgimento dal momento che impiegava filo di rame di sezione relativamente generosa: AWG38 (diametro di 0.1mm).
Altro problema non indifferente era il peso, che sempre a causa della struttura in acciaio arrivava quasi ad 1kg!
L’ALNICO
Tuttavia negli anni ’30 vide la luce una nuova tipologia di magneti, basata su una lega di Alluminio, Nickel e Cobalto e per questo battezzata “AlNiCo”.
I nuovi magneti offrivano maggior potenza con pesi ed ingombri assai minori ed influirono profondamente sia sul progetto dei pickup che su quello dei nuovi altoparlanti da montare negli amplificatori.
Grazie alla disponibilità di tali magneti già nel 1940 la Gibson aveva messo a punto un nuovo trasduttore in AlNiCo da montare sui modelli ES100, 125 e 150. Il progetto fu affidato a Walt Fuller che lo inserì in un contenitore metallico rettangolare con vite di montaggio e regolazione su ciascun lato.
IL P13
Alcune versioni avevano poli a vista, regolabili in altezza per ogni corda. Il trasduttore si chiamò P13.
A differenza del Charlie Christian utilizzava filo più sottile (AWG42, 0.063mm di spessore), cosa che permetteva di raggiungere valori di resistenza in cc dell’avvolgimento attorno ai 6.5 kOhm. Il pickup suonava molto bene e questo portò ad impiegarlo anche su alcune serie di strumenti Harmony e Silvertone.

La Seconda Guerra Mondiale interruppe brutalmente la produzione degli strumenti musicali. La Gibson riconvertì le proprie linee di produzione per dare una mano allo sforzo bellico statunitense e così cessò anche la produzione del P13. Subito dopo la fine della guerra tornò alla sua attività regolare ed anche il progetto di Walt Fuller tornò alla luce, sia pure con alcune modifiche.

La versione con poli singolarmente regolabili aveva riscosso successo e pertanto divenne uno standard. Le specifiche confermarono anche il tipo di conduttore, cioè il Plain Enamel AWG42, avvolto su un rocchetto in materiale plastico assai più largo e meno alto di ciò che si sarebbe visto di lì a poco sugli strumenti di Leo Fender.
La bobina divenne però più consistente rispetto a quella del P13, passando a valori di resistenza in cc compresi tra 7,5 e 8,5 kOhm.
Al di sotto della bobina trovavano posto due barre magnetiche in AlNiCo, divise da uno spaziatore metallico centrale attraversato dalle espansioni polari regolabili, verso le quali entrambi i magneti mostravano la stessa polarità, normalmente Sud. Grazie a tale conformazione, il campo magnetico di questo trasduttore si irradiava dal centro della bobina, creando poi un arco di ritorno verso le estremità esterne delle barre.
Gibson commercializzò questo pickup nel 1946 con il nome di P90.

ANATOMIA DEL P90
Il cablaggio della bobina era realizzato tramite un cavo singolo con schermatura a maglia metallica, saldata direttamente, così come l’altro terminale, sulla piastra metallica che faceva da base alla struttura.

Il pickup è realizzato in due versioni una delle quali, destinata a modelli solidbody come la Les Paul Junior, prevedeva delle estensioni della base sulle quali trovavano posto le viti di montaggio. Dal lato superiore una cover in backelite copre tale struttura con una forma soprannominata “dogear”, cioè “ad orecchie di cane”.

La versione alternativa non prevedeva le estensioni e conteneva le viti di montaggio tra i poli della 5a e 4a corda da un lato e tra quelli della 3a e 2a dall’altro. Il contenitore aveva in questo caso un forma rettangolare ad angoli smussati, che gli operatori del settore soprannominarono “soapbar” ovvero “saponetta”.
LO STAPLE
Curiosamente il primo periodo di produzione del P90 vede la compresenza di una versione alternativa del trasduttore basata su poli in AlNiCo di sezione rettangolare impiegati in luogo della coppia di magneti posti sotto la bobina. L’altezza di tali poli era regolabile con un sistema di viti e molle e questo pickup era conosciuto come “Staple”.

La struttura che lo contraddistingue è curiosamente molto simile a quella di un pickup prodotto dalla DeArmond (il Dynasonic, i cui poli erano però cilindrici) ed impiegato sulle chitarre Gretsch negli stessi anni. Sulla questione girano voci non confermate di una preferenza dichiarata da parte di Les Paul per il pickup DeArmond, che egli preferiva al più scuro e potente P90.

La Gibson dunque rischiava di trovarsi con il suo principale endorser che preferiva il pickup di un diverso produttore. Fatto sta che lo Staple aveva una timbrica molto simile al DeArmond e trovò posto sul modello che Les Paul impiegava più spesso nelle sue esibizioni, ovvero la LesPaul Custom “Black Beauty” e compare inequivocabilmente montato sulle chitarre da lui impiegate in quel periodo per le esibizioni…

Nonostante ciò, lo Staple si ritrovò ben presto sfrattato dal più semplice, efficiente e meno costoso P90 a due barre magnetiche, che inizialmente utilizzava barre magnetiche in AlNiCo III e che ne dectetò la fine della breve vita.
Il loro impiego si protrasse fino al 1957, momento nel quale la Gibson dirottò verso più potenti barre in AlNiCo V.
Il passaggio a tali magneti creò lievi variazioni nel carattere del pickup, che divenne più energico ed incisivo.
L’ERA DEL P90
Gibson imipegò il P90 dapprima su tutte le chitarre a cassa alta per poi approdare alle solidbody restando la scelta unica dal 1946 al 1956, quando un progetto affidato all’ingegnere elettronico Seth Lover mise tale primato in discussione.
Tale progetto prese il nome di “humbucker” (passato poi alla storia come PAF) ed aveva lo scopo principale di eliminare l’unico problema che affliggeva il P90: la captazione del rumore di rete dovuta alla sua struttura a singola bobina. Il PAF suonava in realtà anche in modo lievemente diverso, più potente, meno dinamico e meno nitido: tuttavia risolveva brillantemente il problema del rumore impiegando due bobine in una particolare configurazione di fase e di polarità magnetica. Così soppiantò progressivamente il suo predecessore, portando alla cessazione della sua linea di produzione nel decennio successivo.

L’EVOLUZIONE
Nonostante ciò, il P90 continuò a godere di grande considerazione e stima tra i chitarristi e da lì alla metà degli anni ’70 Gibson riesumò il suo progetto e lo produsse a fianco dei pickup humbucker. Da allora è rimasto costantemente in produzione fino ai giorni nostri.
Un prodotto che attraversa tanti decenni deve fare inevitabilmente i conti con le modifiche delle procedure costruttive e sopratutto con le diverse caratteristiche chimiche e fisiche che i materiali impiegati hanno assunto negli anni.
Magneti, filo, composizione chimica dei metalli, macchine per l’avvolgimento delle bobine, consistenza degli avvolgimenti: tutto nel tempo ha subito cambiamenti che hanno portato a piccole variazioni nel comportamento del trasduttore.
Sebbene non si tratti certo di stravolgimenti macroscopici, tale consapevolezza ha spinto in anni recenti alla ricerca dell’equilibrio originario delle prime produzioni, che si considerava perduto. Sono nate così le cosiddette “riedizioni”, campo nel quale alcuni costruttori hanno scelto appositamente di specializzarsi.
LA VARIABILITA’
L’intento si scontra però con il fatto che non tutti i primi P90 nascevano identici: la scarsa consistenza delle bobinarici meccaniche, la mancanza di una specifica direttiva che andasse al di là del “riempimento del rocchetto”, i molti e diversi operatori addetti alla costruzione facevano sì che il prodotto finale fosse caratterizzato da una certa variabilità tra esemplare ed esemplare, condizione che si mantenne identica anche durante la produzione iniziale dei PAF.
Questa variabilità unita alle complesse interazioni tra i parametri coinvolti (tolleranze del filo e dei magneti, magnetizzazione delle barre e variazioni della composizione chimica dei componenti metallici impiegati negli anni) delle quali sostanzialmente nessuno teneva conto, crea l’aura di mistero che avvolge molte produzioni vintage e lascia un margine di dubbio che è difficile dissolvere del tutto su quali siano realmente le caratteristiche vincenti e le versioni migliori del prodotto, del quale oggi ciascun produttore propone la riedizione che ritiene più vicina al proprio ideale di eccellenza.
UN EVERGREEN CHE SFIDA IL TEMPO
Fatto sta che il P90 resta a tutt’oggi a detta di tanti il più versatile pickup mai prodotto. Nonostante l’immissione recente sul mercato di varianti in formato humbucker come il P94 o silenziate mediante la sovrapposizione di una seconda bobina come il P100, il progetto originale di Walt Fuller gode ancora di un successo imperituro giustificato dall’ampio range di frequenze, una risposta al tocco pronta e di grande impatto, una nitidezza che non si perde mai unita ad un livello di uscita molto generoso.
Tali pregi fanno soprassedere i più proprio sul principale inconveniente che ne decretò l’iniziale scomparsa, cioè la presenza del rumore di rete in quantità importante che necessita di un attento controllo.
D’altro canto la resa eccellente tanto su strumenti a cassa vuota quanto su quelli a corpo solido e la timbrica piacevole che ben si adatta a generi musicali molto differenti tra loro, dal jazz al country, dal rockabilly al punk, lo hanno reso un vero e proprio “evergreen”.